Infarto cardiaco: scoperto un ormone chiave per riparare il cuore
Il gruppo di ricerca di Gabriele D’Uva

Un gruppo internazionale di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna ha individuato un gene chiave che potrebbe permettere di riparare i danni subiti dal cuore dopo un infarto. Lo studio – pubblicato sulla rivista Nature Cardiovascular Research – mostra che l’incapacità del muscolo cardiaco di rigenerarsi dopo un infarto sarebbe, almeno in parte, dovuta all’azione di una classe di ormoni steroidei, i glucocorticoidi, che dopo la nascita spingerebbero le cellule muscolari del cuore a maturare, bloccandone al tempo stesso la proliferazione.

“I risultati che abbiamo ottenuto mostrano che i glucocorticoidi rappresentano un importante freno della capacità rigenerativa cardiaca: la loro inibizione ha infatti mostrato esiti promettenti nella riparazione del tessuto cardiaco danneggiato”, spiega Gabriele D’Uva, ricercatore al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna che ha coordinato lo studio. “Si tratta di una scoperta molto rilevante, che in futuro potrebbe portare a trattamenti efficaci per migliorare le condizioni del cuore dei pazienti colpiti da infarto”.

Le malattie cardiache sono una delle principali cause di morte in tutto il mondo, in parte proprio perché il tessuto cardiaco, a differenza di altri tessuti del nostro corpo, non è in grado di rigenerarsi. Durante un infarto miocardico, infatti, le cellule del muscolo cardiaco muoiono e vengono sostituite da un tessuto cicatriziale che è incapace di contrarsi. Se il danno è esteso, questo porta a sviluppare un’insufficienza cardiaca: una condizione per cui il cuore non riesce a pompare sangue in quantità sufficiente a soddisfare le esigenze dell’organismo, che può portare a diversi esiti debilitanti, fino alla morte cardiaca improvvisa.

La mancata capacità di rigenerazione del tessuto cardiaco è una caratteristica costante a partire dalla nascita. Questo perché il sistema respiratorio e vascolare del neonato va subito incontro a rapide e importanti modificazioni per consentire il passaggio dalla vita intrauterina a quella extrauterina. In particolare, nel cuore neonatale le cellule muscolari cardiache si specializzano ulteriormente: perdono la capacità di replicarsi e continuano a crescere in dimensione.

“Al contrario di quanto accade nella maggior parte dei tessuti del nostro corpo, che si rinnovano per tutta la vita, il rinnovamento del tessuto cardiaco in età adulta risulta estremamente basso, quasi inesistente”, dice D’Uva. “Ciò è conseguenza sia del ridottissimo tasso di proliferazione delle cellule muscolari cardiache che dell’assenza di una significativa popolazione di ‘cellule staminali’ in questo tessuto: i danni severi al cuore, indotti ad esempio da infarto miocardico, sono quindi di fatto permanenti”.

Per cercare una strada che possa invertire questa incapacità rigenerativa del cuore, gli studiosi si sono concentrati sui glucocorticoidi: una classe di ormoni che svolge importanti ruoli nello sviluppo, metabolismo e mantenimento dell’omeostasi e nella gestione di situazioni di stress.

In preparazione della nascita, i glucocorticoidi sono noti per indurre la maturazione dei polmoni. I ricercatori, però, si sono accorti che esponendo cellule muscolari cardiache neonatali a questi ormoni, le cellule perdevano la loro capacità proliferativa. Sono stati quindi realizzate analisi del tessuto cardiaco durante la prima settimana di vita postnatale, dalle quali è emerso un aumento della quantità del recettore per i glucocorticoidi (GR): un elemento che suggerisce come l’attività dei glucocorticoidi vada aumentando nell’immediato periodo postnatale.

Da qui è nata l’ipotesi che i glucocorticoidi possano essere responsabili della maturazione delle cellule muscolari cardiache, a discapito della loro capacità replicativa e rigenerativa. Un’idea che è stata ora dimostrata sul modello animale, utilizzando sofisticate tecniche di biologia molecolare.

Attraverso la delezione del recettore GR è infatti emerso un ridotto differenziamento delle cellule muscolari cardiache, ossia la loro permanenza in uno stato immaturo, che ha portato ad un aumento della loro divisione in nuove cellule cardiache. I ricercatori sono inoltre riusciti a chiarire il meccanismo molecolare responsabile del blocco replicativo da parte dei glucocorticoidi, dovuto ad una modulazione del metabolismo energetico cellulare.

“La delezione del recettore per i glucocorticoidi si è dimostrata capace di aumentare la capacità delle cellule del muscolo cardiaco di replicarsi a seguito di infarto miocardico, promuovendo nel giro di poche settimane un processo di rigenerazione del cuore”, conferma D’Uva. “Risultati simili, inoltre, sono stati ottenuti attraverso la somministrazione di un farmaco inibitore del recettore GR già approvato per uso clinico sull’uomo”.

Il gruppo di ricerca punta ora a testare potenziali effetti sinergici con altri stimoli pro-rigenerativi, in modo da proporre strategie più efficaci per la rigenerazione del cuore: un risultato che potrebbe aiutare milioni di pazienti in tutto il mondo.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Cardiovascular Research con il titolo “Glucocorticoid receptor antagonization propels endogenous cardiomyocyte proliferation and cardiac regeneration”. La ricerca – sviluppata anche grazie al finanziamento europeo ERA-CVD – è stata coordinata da Gabriele D’Uva, ricercatore al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna, con il significativo contributo dei ricercatori Nicola Pianca e Francesca Sacchi.

Per l’Università di Bologna hanno inoltre collaborato al progetto anche i gruppi guidati da Mattia Lauriola (Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale), Giovanna Cenacchi (Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie), Luisa Iommarini (Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie), Anna Maria Porcelli (Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie) e Carlo Ventura (Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale). Altre analisi sono state condotte in collaborazione con i gruppi di ricerca di Eldad Tzahor (Weizmann Institute of Science, Israele) e Mauro Giacca (King’s College, Regno Unito), in aggiunta al gruppo di Roberto Rizzi (INGM, Italia).

 

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