Una pala d’altare sviluppata come un grande trittico e un’icona più piccola, realizzati ad acrilici e pigmenti su carta. Questa è “Limen. Di soglie e aperture altre”, l’installazione permanente di Francesca Dondoglio, collocata presso la camera mortuaria del cimitero in via Zoello Barbieri a Castelnuovo.
L’opera verrà inaugurata domenica 23 aprile alle 11 alla presenza dell’artista, dell’Assessore alla Cultura Stefano Solignani e dell’Assessore ai Lavori Pubblici Matteo Ferrari. Il progetto “Limen”, a cura di Alessandro Mescoli, Massimiliano Piccinini, Giorgia Cantelli e Marco Gibellini in collaborazione con l’associazione Ricognizioni sull’Arte, è stato realizzato appositamente per questa antica camera mortuaria, con l’idea di fondo della restituzione di un luogo alla comunità.
“Ancora una volta – spiega l’Assessore Ferrari – il nostro patrimonio pubblico si trova al centro di un progetto di arte, il nostro cimitero cittadino nella sua parte storica è un bene prezioso e questo progetto si inserisce in una riqualificazione iniziata dall’Amministrazione qualche anno fa, con due file di cipressi all’ingresso, a formare un percorso ideale che accompagna i visitatori verso l’esposizione delle opere all’interno dell’ossario pubblico”. Così l’Assessore Solignani: “Desidero ringraziare i curatori e l’associazione culturale Ricognizioni sull’Arte per questo progetto che va a continuare il percorso di arte diffusa sul territorio e la promozione della cultura visiva, contribuendo a creare una rete di opere d’arte e luoghi di interesse, meta in divenire di un turismo di prossimità”.
L’intervento tende a valorizzare lo spazio della cappella, rendendolo un luogo umanizzato, di raccoglimento e meditazione. L’installazione, volutamente priva di simboli, connota l’edificio come un luogo di protezione, uno spazio in cui tutti si sentano accolti. Partendo da questa riflessione, l’artista ha ripensato l’ambiente rendendolo esperienziale e percettivo, mutevole con il variare della luce nelle diverse ore del giorno. Il trittico sottolinea attraverso la fusione armonica tra due colori, dal chiaro significato simbolico, la dimensione terrena e spirituale dell’uomo, assenza e presenza della vita al tempo stesso: il blu come colore della trascendenza, del Divino e dello spirito, il rosso come colore del sangue, del terreno e del corpo. La disposizione frontale, similmente a una “pala d’altare” con icona laterale a foglia d’oro, riconduce idealmente, seppur in assenza di riferimenti iconografici, alle opere d’arte sacra del passato, dove gli aspetti cromatici godevano di un simbolismo e di una funzione particolari per aumentare il misticismo e la sacralità di chiese e oratori.
Francesca Dondoglio ha sviluppato nel corso degli anni una peculiare ricerca pittorica tesa ad evocare attraverso sapienti combinazioni cromatiche la nascita di una tensione, uno spleen romantico e serenamente malinconico, ma anche un luogo topografico del possibile come una zona altra dell’esistenza umana. Secondo una logica in cui il colore non è destinato ad essere una semplice istanza estetica, ma più autonomamente un testimone della propria valenza emozionale, l’artista crea una simbologia del colore costituita da qualità contrastanti: razionale ed irrazionale, corpo e spirito. Indagando il rapporto tra “teoria dei colori”, interiorità e tradizione filosofico-poetica, Dondoglio restituisce nei punti di contatto nuove soglie, luoghi di confine atti a generare il sublime insieme ad un immaginario aniconico, esistenziale ed emotivo. “La soglia come luogo paradossale che al contempo unisce e divide, come una frontiera che separa il mondo esteriore da quello interiore ma allo stesso tempo costituisce un varco, un’apertura che le pone in comunicazione – precisa l’artista –. Lavorare in uno spazio con una storia, ci rende testimoni di una stratificazione di eventi, di cui ora anche noi facciamo parte. Ed è come se questa densità di avvenimenti venisse intrappolata nei muri e la materia assorbisse voci, rumori, suoni e li registrasse al suo interno. Un po’ come come accade nei legni dei violini, come ricordò Branduardi ad un concerto, che assorbono le frequenze del suono e le loro fibrille si orientano a seconda di chi li suonava. E ci piace pensare che un domani, con la giusta frequenza, con la giusta eco di domanda, si possano interrogare queste mura e riestrapolare la loro storia”.
L’installazione è parte di un progetto di valorizzazione dei luoghi storici presenti sul territorio comunale, e contribuisce a creare una rete di opere d’arte, emergenze storico-ambientali, e di interesse. In occasione dell’allestimento è stato prodotto un video documentario realizzato da Guido Dallago che raccoglie i contributi documentali di chi ha collaborato a questo progetto. Domenica 23 aprile, in occasione dell’inaugurazione, verrà presentata un’edizione tipografica in tiratura limitata numerata e firmata dall’artista.
A seguire il testo critico dell’installazione firmato dal filosofo, critico d’arte e curatore Roberto Mastroianni: “’Limen. Di soglie e aperture altre’ di Francesca Dondoglio è un’opera site specific pensata per interagire con lo spazio sacro dall’architettura ottocentesca, che sintetizza perfettamente la ricerca condotta dall’artista negli ultimi anni ovvero un lavoro ascrivibile a una forma di “concettualismo esperienziale”, che attraverso una sperimentazione sui materiali e la pittura utilizza i colori e la pittura stessa come vettori privilegiati per veicolare una dimensione emotiva e teorica dell’esperienza estetica.
L’opera in mostra diventa così emblematica di una pratica artistica mossa da una spinta esistenziale, che attraverso la sperimentazione costante sull’uso della pigmentazione e del supporto, sul gesto della mano e sullo sguardo dà forma a un’esperienza creativa finalizzata all’esplorazione della realtà. La ricerca sulla stratificazione pittorica e sull’interazione con i supporti si fa in questo modo indagine teorica e filosofica sui due colori – il rosso e il blu – che l’artista sceglie per dare forma a superfici monocromatiche e bicromatiche che diventano metafora della dimensione diadica del reale. In questo senso, la poetica di Francesca Dondoglio è ascrivibile, inoltre, a quella che Filiberto Menna definiva la “linea analitica dell’arte moderna e contemporanea” ovvero a una ricerca sugli elementi primi della pittura e dell’arte (colore, gesto, superficie…), che interrogandosi su di essi si interroga su tutta la storia dell’arte e della cultura e sulla dimensione antropologica dell’esperienza estetica.
Non è un caso, infatti, che le opere dell’artista diventino porzioni metaforiche di quella tensione tra trascendenza e immanenza, costitutiva della nostra presenza nel mondo, che attraverso la percezione e la relazione con l’interiorità e la materialità mette in forma simbolicamente, ma in modo aniconico, la dimensione spirituale, emotiva e cognitiva dell’umano.
Le opere di Dondoglio hanno sempre indagato in questi ultimi anni la dimensione specifica dell’umano, andando in profondità attraverso un movimento che parte dalla dimensione esteriore e che porta a quella interiore, producendo figurazioni aniconiche che mettono in scena una dimensione simbolica ed esperienziale, che interpella la razionalità dei sensi, della percezione e dello sguardo. In questo modo l’occhio riconosce il deposito di senso e significato sedimentato nella densità del colore, nelle sue stratificazioni e nelle composizioni innescando un’indagine interiore ed ulteriore mossa dallo stato percettivo.
L’idea di una soglia tra il sacro e il profano, tra vita e non-vita, tra la materia e lo spirito, tra l’esistenza e l’essenza viene così messa in scena grazie alla compenetrazione dei pigmenti e alla loro stratificazione, che attraverso l’interazione dei colori e dei materiali danno vita a una densità materica che porta alla rappresentazione di una porzione del nostro inconscio individuale e collettivo.
Il “rosso” e il “blu” diventano, dunque, elementi archetipali di una geometria esistenziale che nella composizione tra le campiture delinea la soglia tra la dimensione immanente e quella trascendente, indicando la linea su cui siamo sempre in bilico tra presenza e assenza, tra essenza ed esistenza, tra mondo sensibile e quello ultrasensibile.
Il luogo più opportuno, dunque, per collocare questo trittico non poteva che essere una macchina d’altare, utilizzata sin dal Medioevo per riprodurre artisticamente quelle porzioni di reale capaci di presentarsi come emblematiche rappresentazioni della dimensione antropologica, spirituale ed esistenziale dell’umano singolo e associato”.