L’Emilia Romagna non è più il granaio d’Italia. “La superficie coltivata a grano tenero in regione è passata da 151.848 a 136.084 ettari nel periodo 2014-2015 e stando ai piani colturali 2016 si avrà un ulteriore calo del 15%; se poi spostiamo l’attenzione sul mais, il crollo in dieci anni è allarmante: da 112.515 nel 2006 a 77.497 ettari nel 2015 e quest’anno si presume una riduzione del 10%”. L’analisi la fa Confagricoltura Emilia Romagna, fortemente preoccupata per la situazione di difficoltà in cui operano le aziende cerealicole della regione (infatti solo il comparto biologico si sostiene).
“Da troppo tempo – osserva Enrico Gambi, presidente della Sezione cerealicola di Confagricoltura Emilia Romagna – le quotazioni dei frumenti, siano essi teneri o duri, sono vicine ai minimi, per non parlare della disastrosa situazione della maiscoltura, dove si produce ormai in perdita, dato che al prezzo non remunerativo si aggiungono le problematiche causate dal clima e ricorrenti ormai da anni”.
In questo contesto Confagricoltura Emilia Romagna evidenzia che, in mancanza di soluzioni agronomiche innovative (disponibilità di varietà di cereali più produttive e resistenti alle fitopatie, selezionate con le più moderne tecniche di miglioramento genetico, ecc.) la sopravvivenza della cerealicoltura è messa a dura prova.
“Chiediamo misure urgenti” dice a chiare lettere Gambi. Confagricoltura richiama l’attenzione su “azioni già da tempo invocate, come ad esempio una maggiore programmazione delle semine a livello nazionale da inserire in accordi di filiera e da gestire nell’ambito di tavoli interprofessionali di settore”.
Sarà comunque molto difficile rimediare alle cause che hanno portato in soli 10 anni alla riduzione della superficie italiana di mais da 1.100.000 nel 2006 a 730.000 ettari nel 2015, con danni enormi per l’economia agricola. Anche la tendenza crescente a seminare frumento duro in ragione del prezzo più elevato, sottraendo ettari al frumento tenero tradizionalmente coltivato nella pianura padana, rischia di rivelarsi un boomerang in un mercato dove gli agricoltori “navigano a vista” non conoscendone appieno le dinamiche.
Secondo Confagricoltura “continua a non esserci chiarezza sull’effettivo coinvolgimento degli agricoltori nella determinazione del prezzo dei cereali sui tavoli delle borse merci (pur essendo i cerealicoltori il primo anello della catena commerciale) e ora attende dal Mipaaf un segnale importante in fase di definizione del decreto attuativo che introdurrà il nuovo sistema delle Cun (Commissioni Uniche Nazionali), affinché prevalga la necessità di una maggiore trasparenza”.
“La mancanza di efficaci interventi di settore – sottolinea infine Gambi – non ha consentito e continua a non consentire quegli investimenti necessari ai produttori per aprire un confronto sui difficili mercati internazionali. Su questo pesa il fatto che troppo prodotto in Italia viene immagazzinato in modo indifferenziato, senza essere separato secondo qualità, contrariamente a quanto avviene ormai da decenni all’estero. E la competitività delle derrate provenienti dall’estero si avvantaggia anche di regole sui residui di agro farmaci che sono meno stringenti di quelle da rispettare per i prodotti italiani”.